Fanfiction a cura di Ryo Asuka
Puoi chiamarmi Actarus.
Controllo.
Addestramento.
Respirò profondamente. Dietro di lui, il Grande Mazinga giaceva sul campo di battaglia, un tappeto di terra sconquassata dalle esplosioni, bruciata dalla furia dei laser. In una lunga striscia di sangue, Tetsuya era riuscito a farsi strada dall’abitacolo del Brain Condor, fino a qualche metro oltre ciò che restava del suo robot. Le gambe si erano fatte pesanti, troppo pesanti. Avanzava solo con la forza delle braccia e delle dita aggrappate al terreno.
Pochi metri. Pochi ancora, per arrivare fino a un mucchio di rocce che avrebbero potuto dargli protezione.
Un rumore assordante fece piazza pulita di tutta quel po’ di concentrazione che era riuscito a raccogliere fino ad ora. Dovevano essere atterrati poco lontano. Il Grande Mazinga era un richiamo troppo visibile, ma lui non aveva avuto la forza di farlo atterrare in un luogo più nascosto.
Non. Aveva. Avuto. La. Forza.
Il volto gli si torse in una smorfia di rabbia.
Passi vicino a lui.
Tetsuya alzò lo sguardo. Il sole gli ferì gli occhi, e riuscì a distinguere solo la sagoma di un pilota, col volto completamente coperto da un elmo. La mano gli andò febbrilmente alla pistola.
“Non… non…”, cominciò a dire, senza aver la forza di finire la minaccia.
L’altro terminò la frase per lui.
“Non intendo farti del male”.
*
“PIANTATELA!”
L’urlo di Jun interruppe appena in tempo lo scatto di Tetsuya.
Non per molto, però. L’ex pilota del Grande Mazinga tornò a puntare lo sguardo su Koji. Se possibile, quella breve interruzione era servita solo a renderlo più torvo di prima.
“Ripetilo”
Koji rimase zitto per qualche istante. Poi non ce la fece più a trattenersi.
“Non sei ancora pronto per tornare a pilotare il Grande Mazinga. Posso ripetertelo una volta ancora, se vuoi”
Tetsuya saettò con gli occhi verso Jun, cercando un appoggio. Il volto di lei rimase serissimo. Poi il suo volto si piantò a terra e allungò una mano per rivolgergli una carezza.
“Koji dice queste cose perché ti considera come un fratello. E sai che anche io ti voglio bene. Le ferite che hai riportato nell’ultimo scontro con Mikenes…”
Tetsuya si liberò con uno scrollone dal tocco leggero di Jun.
Non era così che sarebbe dovuto andare. Sapeva benissimo che quella mattina, l’anniversario della fine della guerra con Mikenes e della morte del Capo, le cose non sarebbero state facili. Non così dannatamente complicate, però.
Era vero, se la rabbia si snebbiava appena per un attimo, sapeva che Koji aveva ragione, che le parole che diceva erano dettate anche dall’affetto. Ma la Fortezza delle Scienze, finita la guerra con Mikenes, sembrava invecchiare di giorno in giorno. E lui, dentro, impazziva dalla paura di spegnersi come le luci della rampa del Brain Condor.
“Tetsuya… i veghiani sono nemici oltre le possibilità dei Mazinga. Credimi, Goldrake…”
“Dov’era questo Goldrake, quando rischiavamo la vita contro il Maresciallo Inferno? Nostro padre sarebbe ancora vivo se…”
Il volto di Koji si indurì. “… se tu non avessi deciso di fare di testa tua, come stai facendo adesso”
Il pugno di Tetsuya colpì Koji in piena faccia, appena prima che Jun potesse intervenire a dividerli.
Il comunicatore di Kabuto si attivò proprio in quel momento. Il segnale suonò a lungo, prima che lui rispondesse.
“Dottor Procton… cosa succede?”
“Koji! Devi tornare al più presto… siamo sotto attacco di Vega”
Un sorriso leggero aveva preso il posto della smorfia furiosa di prima, sul volto di Tetsuya. “Buono a sapersi”
Perché, ora, il Grande Mazinga non si trovava più al Museo della Pace. Non da quando quella struttura si era dimostrata insufficiente per custodirlo a dovere.
Adesso era tempo che, di nuovo, tornasse a combattere.
*
“Mangia. Devi rimetterti in forze”.
Tetsuya riaprì gli occhi, riparandoli d’istinto dal fuoco. Il fuoco che l’altro pilota aveva acceso, e su cui stava arrostendo una trota appena pescata.
Si era tolto quell’elmo solo quando, ore prima, si era tuffato nel fiume. La vista di Tetsuya, però, era troppo ancora troppo annebbiata per distinguere qualcosa del suo volto, oltre i lunghi capelli castani. Adesso il suo salvatore aveva di nuovo la visiera del casco calata a coprire il viso. Lasciava intravedere solo gli occhi: occhi profondi, dal contorno scuro.
“Sembri un essere umano”, disse Tetsuya. La frase gli uscì più sospettosa di quanto non volesse.
L’altro non rispose. “Non sono un Veghiano”, disse poi.
Tetsuya cercò di ignorare la fitta di dolore alla testa. Per quanto il suo improvvisato compagno lo avesse medicato con una fasciatura tutto sommato buona, la ferita gli faceva ancora male. Testimoniava silenziosamente quanto il pilota del Grande Mazinga fosse stato stupido e avventato e quanto avesse ragione a vergognarsi.
Fu una frase detta dall’uomo che aveva davanti, a distrarlo dal dolore.
“Puoi chiamarmi Duke Fleed”.
Aveva un tono di voce basso, che arrivava leggermente distorto dall’elmo.
“Duke… Fleed”, ripetè Tetsuya, sforzandosi di mettere a fuoco la sua immagine. Se ne accorse solo ora. Dietro Duke Fleed c’era un gigantesco Ufo. Un Ufo con un volto, sormontato da una fila di piccole corna centrali e due, ben più robuste, ai lati della testa. Tetsuya non fece fatica a riconoscerlo: mesi prima aveva stretto i pugni con aria impotente, mentre vedeva combattere in diretta televisiva il suo Grande Mazinga (appena trafugato dagli alieni, dal Museo della Pace di Tokyo) proprio contro quel robot.
“Goldrake”, mormorò.
Duke Fleed annuì.
“Quando sarai in grado di muoverti sarà meglio andarcene. I minidischi non ci metteranno molto a tracciare la nostra posizione”, disse poi.
Tetsuya guardò verso il cielo, alla ricerca di un qualunque segnale, un qualunque riflesso della luce che potesse indicargli un movimento sospetto. “Dov’è il Grande Mazinga?”
“Eri stato sbalzato fuori e i ricognitori di Vega stavano arrivando a momenti. Ho dovuto scegliere se salvare te o prendere lui”
Gli occhi di Tetsuya si strinsero di colpo in una smorfia di furore. “Sei impazzito? Avresti dovuto abbandonare me! O hai già dimenticato cosa possono fare con Mazinga? Avresti dovuto lasciarmi morire, piuttosto che lasciarlo lì incustodito!”
“Non ho intenzione di far morire nessuno”. Sempre con quel leggero effetto di rimbombo dovuto alla maschera, la voce di Duke Fleed arrivò ancora più ferma. Aveva un tono serio, che non ammetteva repliche.
Si guardarono negli occhi. Nessuno dei due abbassò lo sguardo.
Poi Tetsuya fece uno sbuffo impaziente, tornando a guardare il fuoco.
*
Per quanto il Brain Condor fosse per l’ottanta per cento ancora efficiente, non avrebbe mai potuto reggere la velocità con cui si muoveva l’Ufo Robot. Goldrake prese la navicella tra le mani e, ancora dentro al disco, si diresse verso il luogo in cui il Grande Mazinga aveva impattato al suolo.
Tetsuya non aveva sentito nessun’altra parola da Duke Fleed fino al momento di ripartire.
Era strano, come pilota. Lui, Tetsuya, ne aveva conosciuti altri e la sua conclusione era sempre stata la stessa: ragazzini, a malapena consapevoli del privilegio e delle responsabilità di difendere la Terra. Era stato così per Kabuto (anche se doveva riconoscere quanto fosse cambiato, dalla fine della guerra) ed era stato così per quelli della Squadra Getta.
Inutile negarlo, erano tutti della stessa pasta. Civili troppo sicuri di loro stessi, che volevano colpire sempre per primi. Inconsapevoli di essere ciò che davvero sarebbero dovuti essere. Soldati.
Duke Fleed sembrava diverso. Non condivideva nulla dell’entusiasmo con cui gli altri accendevano i comandi e davano ordini al loro robot. Quando Goldrake decollò, non sentì la voce alta e squillante del pilota. Sentì un tono fin troppo controllato, un ruggito tenuto a bada.
“Non ti piace combattere, vero?”.
La risposta di Duke Fleed, al comunicatore, arrivò dopo qualche secondo. “Credo che a nessuno piaccia”.
Tetsuya non riuscì a trattenere un ghigno. Poi, di colpo, la sua espressione si fece estremamente seria. “Non devi avere questo robot dall’altro ieri. Eppure, contro il Generale Nero ci saresti stato utile. Forse avresti fatto la tua parte anche durante le invasioni degli Oni, insieme alla Squadra Getta”
Stavolta, dal comunicatore, Tetsuya ebbe l’impressione che l’altro si fosse concesso un sorriso, prima di rispondere. Un sorriso tutt’altro che allegro. “L’hai detto tu che non mi piace combattere”, ribatté Duke Fleed.
“Hai paura?”, lo provocò Tetsuya.
Duke sembrò non badargli. “Il… posto da cui provengo era molto simile a questa parte di Giappone. Koji dice che la tua Fortezza dà sul mare. Hai mai sentito le onde infrangersi sugli scogli? Hanno una tale furia che penseresti basti solo quella, da sola, a erodere la roccia. Oppure, a volte, sembrano cullarti. Cullare i tuoi pensieri, le tue preoccupazioni, fino a renderle leggere e distanti”
Tetsuya stava per ribattere che non aveva mai avuto il tempo per… si zittì. Si ricordò di una volta, in riva al mare a giocare a combattere con Jun, con l’acqua che arrivava alle caviglie di entrambi.
La voce di Duke proseguì. “C’era un periodo in cui passavo molti pomeriggi in riva al mare. Eravamo io e… e un’altra persona a cui volevo molto bene. Stavamo sdraiati sulla sabbia, che il sole aveva scaldato per tutta la giornata, rendendola tiepida. Guardavamo il cielo e non avevamo bisogno di parlare. Sognavamo, e i nostri sogni finivano per assomigliarsi sempre fin troppo”
La voce si incrinò in mille crepe di dolore. “… lei si chiamava Naida”
“Perché mi stai raccontando tutto questo?”
“Per farti capire – la voce di Duke Fleed, se è possibile, si fece ancora più intensa e cupa – Vega ha distrutto tutto. Ogni cosa. Tutto quello che sognavamo, tutto quello che volevamo essere… non esiste più. Non sarà mai più altro che un ricordo. Ed è per questo, solo per questo, che io combatterò sempre le forze di Vega”
Duke Fleed fece una piccola pausa. Come prima, Tetsuya ebbe la netta impressione che stesse sforzandosi di recuperare il controllo, quasi si fosse accorto solo adesso d’aver esposto le proprie emozioni più di quanto non avesse voluto. Ci volle un po’, poi il pilota di Goldrake tornò a parlare.
“E tu? Perché combatti?”
“Io…”. Tetsuya sentì di colpo la voce diventargli secca, le parole difficili sia da pronunciare che da ricacciare giù in gola. Tutto ciò per cui combatteva era scomparso nel momento stesso in cui lui, Koji, Jun e Sayaka davano l’assalto finale a Demonica, la corazzata ammiraglia dell’Impero di Mikenes.
“Io… io combatto perché…”
“Attento! Il mostro spaziale sta per intercettarci! Cerca di volare verso il tuo robot, mentre lo tengo impegnato!”
Tetsuya guardò il puntino sul suo radar di bordo farsi vicino. Sempre più vicino.
Mentalmente, gli venne spontaneo ringraziarlo.
*
“RAGGIO ANTIGRAVITA’!”
Il getto di luce multicolore della piastra centrale di Goldrake spinse con forza il mostro spaziale, ormai pesantemente ferito, addosso alla vampata rosso fuoco dei Raggi Gamma del Grande Mazinga, appostato dietro di lui. In quella posizione, schiacciato dall’energia a gravità zero di un robot e da quella distruttiva dell’altro, il gigantesco guerriero di Vega non poteva fare altro che cercare di ripararsi, richiudendosi a guscio nei due larghi scudi – saldati agli avambracci – che potevano unirsi trasformandolo in un grosso disco volante.
“SPADA DIABOLICA!”. Il Grande Mazinga fece leva con la sua lama, incastrandola tra i due scudi, per impedire che riuscissero a chiudersi. “GOLDRAKE, E’ TUO!”
Due lampi di luce saettarono in aria, dalle spalle del robot di Duke Fleed.
“ALABARDA SPAZIALE!”
Prima che Tetsuya potesse accorgersi di quello che stava succedendo, Goldrake aveva già squarciato a metà il mostro, con un colpo netto di quella sorta di doppia falce che utilizzava come arma bianca. Il Grande Mazinga e Goldrake fecero appena in tempo ad allontanarsi dal raggio di detonazione, prima che il corpo del mostro di Vega venisse consumato in una colossale esplosione carica di rosso.
Pochi minuti dopo, i due piloti erano ai piedi dei rispettivi robot, attendendo l’arrivo di Koji, a bordo del suo nuovo Double Spacer, e di Jun su Aphrodite A.
“Non te la cavi male, per uno che odia combattere”, ammise Tetsuya con un sorriso.
Duke Fleed lo fissò. Il pilota del Grande Mazinga ebbe di nuovo l’impressione, non avrebbe potuto spiegare perché, che stesse sorridendo, dietro quell’elmo. Con un sorriso meno amaro del precedente.
“Detto da te, è un complimento”
Il sole proiettò su di loro le ombre dei due giganti a cui entrambi erano legati. Erano fermi nell’atto di stringersi la mano.
Tetsuya fece un profondo respiro. “Koji aveva ragione. Non sono pronto per combattere questa guerra. Non adesso, almeno. Devo… devo prima capire cosa…”. Non riuscì ad andare avanti. Non gli riusciva mai semplice spiegarsi, se ciò che doveva spiegare lo riguardava direttamente.
Duke Fleed gli appoggiò una mano sulla spalla. “Non preoccuparti. Sono sicuro che ce la farai”
“Sono in debito di qualcosa, Duke Fleed”
Duke Fleed scosse la testa. Poi, lentamente, si tolse l’elmo.
Per un attimo, Tetsuya aveva pensato potesse esserci qualunque cosa, dietro quella sorta di maschera che copriva il viso dell’altro integralmente. Anche il volto di un alieno.
Invece fu costretto a ricredersi: era un essere umano, proprio come lui.
Duke Fleed sorrise.
“Puoi chiamarmi Actarus, se vuoi”, disse tendendo la mano a Tetsuya.
Fanfiction a cura di Icarius
UFO venuto dal crepuscolo
La Luna rossa si rifletteva con una scia vermiglia sulla superfice del laghetto, creando, con un etereo alone diffuso, una surreale atmosfera in tutto il paesaggio. L’aria fresca del crepuscolo, riaschiarata dalla lieve brezza, diffondeva ovunque un senso di pace e tranquillità. Questo per chiunque avesse ammirato quel paesaggio, ma non certo per quel ragazzo disteso sul prato, che guardava malinconico il cielo, ossessionato e perseguitato da antichi fantasmi.
“La Luna è rossa, ci attaccheranno!” Disse fra sé.
In quel momento, come una vampata di calore, intenso e vigoroso, si diffuse sul suo braccio. Con gesto istintivo portò la mano sulla vecchia ferita e la strinse forte.
Gli occhi erano spalancati e sul viso si formò una smorfia di tensione. Non era per il dolore, sebbene lacerante e forte, ma per una viva e primordiale paura. In quel momento come un velo scese sul suo cuore e dal fondo della sua anima udì ancora la voce di sua madre, come funesto presagio di morte. In un attimo scene di dolore, angoscia e paura si accavallarono davanti a lui. Poi un forte senso di rabbia sorse dai meandri del suo tormentato animo. Actarus allora saltò in piedi ed iniziò a correre. Correva all’impazzata, senza meta, in quell’idilliaco paesaggio, dominato da un’atmosfera che pareva solo il sereno prima della tempesta.
Corse con il fiato grosso ed il sudore che scendeva sui lineamenti contratti. Corse fino a quando, stanco, si lasciò cadere a terra. Strappò con forza l’erba e la strinse forte, quasi come a volerne fare uscire l’intenso odore che si era diffuso nel boschetto.
“Questo è il mio pianeta, la mia nuova casa! Non lascerò che la distruggano! Non voglio che accada!”
Disse con una voce carica di vivo odio. Si dice che l’odio consumi chi lo prova, ma solo il vigore intenso ed ossessivo che nasce dall’odio più profondo poteva dare ad Actarus quella determinazione.
Intanto quella stessa Luna rossa appariva maestosa ed enigmatica sui monitor del Centro Spaziale.
L’attento scienziato aveva dato ordine ai suoi collaboratori di sezionare ogni parte del cielo, dopo che i macchinari avevano captato quel misterioso segnale. C’era nella base un senso di chiara inquietudine. La tensione era alta, sebbene nulla più veniva rilevato dai radar.
“Che cosa può essere stato, dottore?” Chiese Alcor, visibilmente agitato.
Procton non rispose. Seguiva tutti i passaggi dei suoi assistenti, senza però mai staccare almeno un occhio dal grande schermo e da quel vivo rosso lunare. Poi, quasi meccanicamente, si accese la pipa ed iniziò a fumare con aria meditativa. In quel momento però Actarus fece il suo ingresso nella sala. Tutti si voltarono a guardarlo.
“Loro sono qui, padre! Lo so, lo sento!” Disse il fleediano.
“Credo stiano cercando questo laboratorio; trovare la base di Goldrake è essenziale per i loro piani!” Rispose Procton con tono gravoso.
“Allora dobbiamo agire subito!” Gridò Alcor, tradendo la sua istintività.
“Andrò io solo! Tu tieniti pronto, Alcor!” Disse Actarus.
Dopo un istante si lanciò fuori dalla sala, raggiungendo il passaggio per accedere a Goldrake.
Con una spaventosa e poderosa onda d’urto, Goldrake, dopo alcuni momenti, fuoriuscì dalla base, tagliando con un fulmineo sibilo l’aria circostante. Nell’oscurità di quella tormentata notte, Actarus cercava il suo nemico, per combattere i suoi fantasmi. Alcuni istanti dopo, nella base scattò l’allarme; un puntino lampeggiante si infiammò sul radar e dopo pochi secondi una misteriosa sagoma apparve sull’immagine della Luna. Subito dopo fu avvertito Actarus. Il giovane allora sentì crescere forte dentro di sé l’ansia per la lotta. Quella sagoma, leggera e silenziosa, in un attimo fu sul bosco. Dopodiche scese sulla buia radura. Fu allora che quell’enorme e lucido disco si aprì, assumendo la forma del nuovo incubo veghiano. L’ufo robot scrutava la zona, in cerca della sua preda. All’improvviso una scia di raggi infuocati si abbattè su di esso, incendiando tutto ciò che gli stava intorno. Tuttavia, l’agile ufo, ripresa la sua forma a disco, scattò via, librandosi nell’aria.
“Maledetto, il prossimo attacco che ti porterò non riuscirai ad evitarlo!” Gridò Actarus.
Goldrake allora si portò sopra il nemico, ma questi, con scatti di fulminea rapidità, si teneva a debita distanza. Fu allora che, una lama velocissima, tagliando l’aria, partì da Goldrake verso quel disco. Ma un tonfo sordo e metallico si diffuse insopportabile nell’aria. La solida corazza aveva infatti respinto la veloce lama rotante. Lo stupore di Actarus durò un istante e subito dopo si ritrovò una pioggia di bagliori incandescenti addosso. Il poderoso frutto della tecnologia di Fleed attutì quel fiero colpo, ma tuttavia fu costretto ad arretrare per sottrarsi da quell’attacco. Ancora una volta il disco si aprì e mostrò il suo freddo e terribile aspetto. Allora Actarus decise di affrontarlo in uno scontro corpo a corpo. Un frase gridata al cielo e in un attimo Goldrake fuoriuscì dalla sua astronave.
“Maglio perforante!”
Ma la velocità con cui l’ufo si richiuse e la tenacia della sua corazza a respingere il superbo colpo, resero l’attacco di nuovo vano.
“In queste condizioni, continuare ad attaccarlo significherebbe perdere inutilmente energia!” Pensò il principe di Fleed.
Intanto il disco nemico iniziò a volteggiare attorno a Goldrake in maniera sempre più veloce. Una scia si formò e poi avvolse il robot fleediano. Poi, come un lampo, quel disco si riaprì ancora e piombò su Goldrake. L’urto fu immane, degno della velocità con la quale i due robot piombarono al suolo. Un boato scosse tutto. Actarus urtò la testa pesantemente. La vista era appannata ed un taglio si aprì sulla sua tempia. L’aria iniziò a mancargli e istintivamente Actarus sollevò la visiera del suo casco. L’ufo robot iniziò allora a vomitare un getto di vivo laser su Goldrake, facendo salire la temperatura interna del robot a livelli insopportabili. Un Averno di fuoco circondò allora Goldrake. Actarus sentiva la pelle come sciogliersi, mentre la ferita pulsava come mai prima d’ora.
“E’…è la fine!” Disse fra sé.
Poi, in quello stesso momento, una voce, la stessa che aveva annunziato tutto questo, sembrò giungere dal suo cuore. Actarus sentì sua madre che lo chiamava, mentre il fuoco avvolgeva Goldrake. Le scene della distruzione di Fleed, della morte dei suoi cari, ancora una volta si accavallarono davanti ai suoi occhi, come riflesso della vita che sembrava volerlo abbandonare. Ma nello stesso attimo, qualcosa colpì l’ufo veghiano, facendo cessare il suo attacco.
“Actarus, mi senti? Come stai?” Disse Alcor giunto appena in tempo per aiutarlo.
Actarus allora strinse i pugni e trovò la forza di gridare ancora:
“Raggio antigravitazionale!”
L’ufo robot fu così scaraventato via da Goldrake.
“Alabarda Spaziale!” Gridò ancora Actarus.
In un attimo, con un fulmineo bagliore, la letale arma si formò tra le mani di Goldrake, il quale la lanciò roteando verso l’ufo nemico. Questi tentò di chiudersi nella corazza, ma l’attimo di smarrimento, dopo l’attacco subito, gli fu fatale. L’alabarda gli si conficcò nel collo, bloccando la chiusura del disco e lacerando fatalmente il mostro di Vega. Actarus gridò forte, invocando il colpo di grazia ed il Tuono Spaziale raggiunse ed avvolse l’ufo robot, facendolo ardere e consumare in una devastante esplosione. Tutto fu illuminato da quei bagliori e come un rugito meccanico, tremendo e delirante, si levò dalle fiamme echeggiando nella notte. Actarus guardava la scena affannando, ancora con quell’odio vivo che aveva invaso il suo cuore. Poi, un attimo dopo, si destò e, guardando il volto di Alcor nel piccolo monitor, sorrise. I due ragazzi allora si diressero verso la base, ma ad un tratto Actarus disse:
“Grazie,amico mio!”
Alcor sorrise senza dire nulla.
“Come è bella questa notte, chiara di stelle e densa di serena vitalità!” Disse ancora Actarus.
“Ideale per sognare!”Aggiunse Alcor.
“Si, sperando che presto ci sia un domani dove i nostri sogni non svaniscano con l’albeggiare! Un domani che ci permetta di credere in quei sogni, da uomini liberi!” Aggiunse Actarus scrutando l’immenso orizzonte.
“Arriverà questo domani e noi lo renderemo tale!”Rispose Alcor.
Tra i due ci fu allora un gesto d’intesa, mentre i loro poderosi mezzi scintillavano veloci in quella notte stellata, sotto la pallida Luna che aveva ora assunto argentei riflessi.
Fanfiction a cura di H.Aster
Ricordi
Un anno, poco più di un anno…
Il disco sfrecciava nel cielo, sorvolando pianure e colline. La luce si rifletteva sulla sua liscia superficie; per contrasto, la lunga scanalatura irregolare che lo segnava da parte a parte appariva ancora più evidente. Sarebbe stato facile accomodare il rivestimento del robot per farla sparire; invece s’era deciso di lasciarla, perché quella lunga scalfittura era il ricordo dell’ultima battaglia sostenuta con Vega. Una sorta di gloriosa cicatrice, un ricordo di tempi che non avrebbero dovuto essere mai più.
Le mani di Duke Fleed si serrarono maggiormente sulle cloches, mentre guidava Goldrake in quel cielo nuovamente limpido, incontaminato.
Non c’erano più nemici da affrontare, ormai: tutti i voli di Goldrake erano ricognizioni, controlli, spargimenti di sementi, distribuzioni di fertilizzante.
Duke si sporse per guardare meglio l’ampia pianura sotto di lui: vaste distese brunastre chiazzate di zone verdi. La vegetazione era ancora molto scarsa, su Fleed, ma in un anno c’erano già stati progressi notevoli. Duke ricordava bene il panorama che s’era presentato a lui e a Maria, al loro arrivo… devastato dalle radiazioni, il pianeta era loro sembrato quasi interamente morto, bruciato. Solo in alcune zone erano sopravvissute piante ed animali, e in molti casi s’era trattato di esemplari colpiti dalle radiazioni. Uno spettacolo desolante.
Ma Fleed non era morto.
Duke e Maria avevano lavorato a lungo, curando piante ed animali, seminando fiori ed alberi e coltivandoli con amore; il ritorno di altri fleediani, scampati miracolosamente alle colonie penali di Vega, aveva portato nuovi aiuti per il compito immane che si erano prefissi. Dopo un anno, il pianeta contava su vari ettari di terreno vegetativo e popolato d’animali, svariate, immense serre destinate alla coltura intensiva e una colonia di duemila abitanti circa. Una goccia nell’oceano, certo, ma una goccia destinata a crescere a livello esponenziale.
Duke aumentò ancora la velocità, mentre la sua mente vagava in vecchi ricordi…
Buffo. Un tempo aveva agognato la pace, la tranquillità, il ritorno al suo pianeta… ora non faceva che pensare alla Terra, e ai tempi in cui aveva combattuto Vega.
Non che rimpiangesse la guerra: aveva vissuto in prima persona troppi orrori, per volerli rivivere.
Gli mancavano i suoi amici… gli mancava la sua squadra.
Procton, sempre calmo ed autorevole, Alcor, così sanguigno ed impulsivo… e Venusia.
Già, Venusia.
Il solo pensare a lei gli fece provare una sorta di fitta al petto, mentre si sentiva colmare d’un affetto infinito… perché le aveva voluto bene, davvero. Anche se non come lei aveva sperato.
Actarus… no, Duke, erano passati i tempi in cui lui era Actarus… sorrise lievemente. Al contrario di Alcor e Maria, temerari fino all’incoscienza, in combattimento Venusia aveva provato spesso paura; però non si era mai vergognata ad ammetterlo, ed era sempre riuscita a dominarla.
Lui l’aveva sempre ammirata per questo, ma non glielo aveva mai detto… non aveva mai trovato il modo di dirle questo, e molto altro ancora, a lei e agli altri. A dire il vero, c’erano molte cose che aveva sempre tenuto per sé, e di cui ora si pentiva d’aver taciuto… quanto gli mancava il sentirsi uniti, l’aiutarsi l’un l’altro, il contare sui compagni, ad esempio. Quanto gli mancava la voce rassicurante di Procton, che dava istruzioni e suggerimenti.
Quanto gli mancava tutto.
Chiuse gli occhi, gli echi del passato gli tornarono alla mente… e per un attimo, fu di nuovo Actarus.
Procton: – Fate attenzione, stormo di minidischi di fronte a voi.
Alcor: – Actarus, ci penso io a spazzare via quei moscerini!
Maria: – Non essere egoista, lasciane qualcuno anche a me!
Procton: – Abbiamo localizzato dove si trova la base sottomarina, vi trasmetto le coordinate.
Venusia: – Delfino Spaziale pronto all’aggancio!
Actarus riaprì gli occhi, che stranamente gli bruciavano. Sentiva ancora le grida dei compagni, mentre azionavano lame cicloniche e bombe termiche…
Ma davanti a lui, ora c’era il cielo terso di Fleed.
Mi mancano ancora più di quanto avessi pensato.
Eppure era felice su Fleed… sapeva di star svolgendo un compito importante, ma…
Evidentemente, era destino che dovesse sentirsi insoddisfatto. Esule, aveva sempre sognato Fleed; ora, non faceva che pensare alla Terra. Si sentiva diviso a metà, incompleto.
Non sempre il tempo è il rimedio ad ogni male; nel suo caso, si aggiungeva anche il cruccio di pensare a quanti mesi erano trascorsi senza avere notizie di quelle persone che per lui erano state una seconda famiglia.
Spinse maggiormente in avanti Goldrake, mentre scrutava le zone verdi sotto di sé.
Fleed aveva ricominciato a vivere; non c’era più bisogno della sua continua presenza. Avrebbe potuto prendersi un periodo di pausa.
Voglio tornare sulla terra. Voglio rivedere mio padre, i miei amici… la fattoria, i campi, il fiume…
Sorrise pensando alla gioia che avrebbe scorto su quei visi che gli erano così cari; poi pensò a Maria, che ostentava grande indifferenza ma che – ne era più che certo – non faceva che pensare ad Alcor…
“Ho intenzione di andare sulla Terra a vedere come stanno i nostri amici… ti piacerebbe accompagnarmi?”; e qui, lo sapeva, Maria sarebbe esplosa in un incontenibile urlo d’esultanza.
– E va bene! Tornerò sulla terra! – scandì a voce alta, deciso; e subito ebbe l’impressione di sentirsi più leggero, mentre il robot sembrava sfrecciare ancora più velocemente nel cielo. Felice, intonò a mezza voce un motivo, una canzone che piaceva molto a Venusia, ma s’interruppe subito, sorpreso.
Duke inarcò un sopracciglio, rimanendo in ascolto qualche attimo; poi scosse le spalle. Sciocchezze. Non poteva essere che immaginazione.
Per un istante, solo per un istante gli era parso che anche i motori di Goldrake cantassero…